Presentazione inserita nel catalogo pubblicato in occasione della mostra di Alfredo Chiapponi “L’ultima notte”
( Parma – Galleria Sant’Andrea – 23 dic 2012 / 17 gen 2013)
Ho sempre scritto con facilità, fin da quando ero piccola.
Il gesto di impugnare una penna e di raccontare a un foglio di carta ciò che pensavo, sentivo o vedevo mi veniva naturale, quasi quanto quello di prendere le matite colorate e incominciare a disegnare.
Due gesti che mi hanno portato fortuna, finora, nella vita e nel lavoro.
Due inclinazioni che mi hanno avvicinato, in un passato ormai piuttosto lontano, a due persone fondamentali nella mia educazione, e nella mia esistenza: Uccia, la “mia” Uccia, la mia maestra fin dalla seconda elementare, e Dino, Alfredo Chiapponi, il mio “maestro”, di disegno da bambina, poi di pittura, di arte, di pensiero e di filosofia.
La vita è strana, e ha fatto sì che, anni dopo, queste due persone tanto importanti nella mia formazione, letteraria e artistica, diventassero marito e moglie, scegliessero di percorrere insieme il cammino dell’esistenza. Ma la vita a volte è anche infame: e pochi mesi fa ha portato via Uccia a Dino, ai suoi affetti, a tutti noi che la amavamo.
E adesso mi trovo in una condizione particolare: devo scrivere di lei, devo cercare di ricordare cosa era lei per me, e in un attimo tutta la facilità, tutta la dimestichezza con la scrittura che mi ha sempre accompagnato e che mi accompagna quotidianamente mi sembra lontana, malcerta. Inutile.
Allora provo a lasciare da parte le intenzioni, provo a pensare a lei, semplicemente.
Cosa ricordo con più chiarezza?
La sua bellezza, la sua vitalità. Giovane, snella, sempre elegante; di una bellezza mediterranea e sincera, due occhi grandi e scuri che scrutavano dentro di te, a cui non potevi nascondere nulla.
Una bocca ben disegnata che si apriva in un sorriso solare, in una risata alle volte squillante, che faceva sì che gli occhi grandi si socchiudessero, come per farle spazio.
L’amore per il suo lavoro, che faceva con impegno e dedizione ma soprattutto con tanta allegria. L’amore per noi, i “suoi bambini”, un amore che non finiva con il concludersi di un ciclo scolastico ma, in molti casi, proseguiva per una vita intera.
Non ricordo esattamente il giorno in cui ho conosciuto Uccia. O meglio: ricordo l’entusiasmo che mi portai a casa, per questa nuova maestra: bella, simpatica, allegra, dolcissima.
Non riesco invece a recuperare un’immagine precisa di lei: com’era vestita quel giorno, come portava i capelli. Mi manca questo tassello, e mi pesa questa mancanza.
Perché invece lei, moltissime volte, negli anni, mi ha ripetuto che ricordava perfettamente il primo giorno nella nostra classe, e le mie treccine bionde raccolte sul capo, il grembiulino bianco con dei volant sulle spalle che sembravano un paio d’alucce, i sandaletti di vernice nera tutti intrecciati…
In quell’immagine, che lei aveva custodito con cura in un cassetto della sua memoria, sentivo ogni volta il suo amore per me, e ne ero orgogliosa.
Ho altre immagini di lei, conservo altri momenti, felici, nella mia mente: uno fra tutti, un abbraccio dolcissimo con Dino, la prima volta che li ho visti abbandonarsi a un gesto di tenerezza davanti a me. Accadde quando da poco avevano deciso di vivere assieme, e si erano trasferiti in una casa sistemata ad arte dalle mani d’oro di Chiapponi, che aveva creato, scolpito e costruito a tempo di record una reggia degna della sua principessa.
A me, ancora ragazzina, questo grande amore è sempre sembrato una favola: e come tutte le favole pensavo avrebbe avuto un finale lieto.
C’è un esercizio che ricordo ci fece fare Uccia, quando eravamo ancora molto piccoli.
Potevamo essere in seconda, al massimo in terza elementare.
Ci fece ascoltare le Quattro Stagioni di Vivaldi: terminato l’ascolto, dovevamo scrivere una storia che riproducesse le emozioni che avevamo provato.
(E qui, tanto si potrebbe dire: erano i primi anni Ottanta, altro che sperimentazioni inutili e riforme scolastiche improvvisate … ma non è questa la sede.)
Il primo giorno toccò alla Primavera. Ricordo, grosso modo, che mi arrampicai in un racconto fiabesco di principesse e amori impossibili, che alla fine trovavano una realizzazione. Un lieto fine, appunto. Il giudizio di Uccia non fu entusiastico. Era come se mi dicesse: puoi fare di meglio.
La volta successiva ascoltammo l’Autunno: e qui arrivò il mio momento.
Perché, evidentemente, aveva ragione Uccia: il lieto fine, la favola, non era esattamente nelle mie corde. Potevo fare di più.
Mi prese una strana malinconia, che restituii nel mio lavoro con la storia di un cerbiatto ferito e morente. Non ricordo altro, con precisione, se non l’espressione di Uccia mentre la leggeva: a un certo punto, si interruppe e con la sua aria assoluta e intensa mi disse, con voce grave: “Come sei stata brava…”
“Come sei stata brava…”, ripeteva, le volte che le capitava di leggere qualcosa che Chiapponi mi aveva chiesto di scrivere, la volta che l’ho chiamata al telefono per raccontarle che avevo superato l’esame di ammissione alla Scuola Normale di Pisa, tutte le infinite volte in cui, con queste parole, ha voluto esprimere il suo affetto per me che, di sicuro, superava di gran lunga le mie reali capacità.
Questa volta non credo che lo direbbe.
Questa volta mi sento inadeguata a scrivere di lei, di lei che è stata di sicuro la donna, la figura femminile più importante nella mia vita dopo mia madre.
E mi sento a disagio per non averle potuto dare l’ultimo saluto come meritava, per colpa della mia vita lontana dalla famiglia e dagli affetti: una vita che ho scelto per me tanti anni fa, a cui ormai sono abituata, ma che mi pesa incredibilmente nei momenti come questo.
Quando la vita non regala il lieto fine, di solito ci pensano gli uomini a costruirsene uno a posteriori.
A me, che non ho il privilegio della fede, rimane come unico conforto la filosofia:
“Abítuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni.
Quindi comprendere bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell’immortalità.
Infatti non c’è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c’è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte solo perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti, quando sarà presente, non ci darà dolore: ed è quindi sciocco lasciare che ci porti dolore mentre l’attendiamo.
Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte; quando c’è la morte, non ci siamo più noi.”
Roma, 4 agosto 2012
“Ricordando Uccia”
di Valeria Castrucci
Deprecated: Function get_magic_quotes_gpc() is deprecated in /public_html/wp-includes/formatting.php on line 3467